
Valentina's critical gaze from the Lido
(from Venice Luigi Noera and Valentina Vignoli with the kind collaboration of Maria Vittoria Battaglia, Vittorio De Agrò (RS) and Marina Pavido – the photos are published courtesy of the Venice Film Festival)
A doc on Nazi cinematography, gli esuli dissidenti russi e una storia leggera sull’Amore irrompono alla Mostra
Riefenstahl di Andres Veiel (FC)
Between archive images and the personal archive (and unpublished) at Leni Riefenstahl, Andres Veiel (regista di If Not Us, Who? little known in Italy) mette insieme un ritratto della regista nazista riproponendo domande complesse sul rapporto tra arte e politica.
“L’opposto della politica è l’arte” dichiara Riefenstahl in una delle tante interviste recuperate. “L’arte è un viaggio nella profondità che esige un’intensità che non concede tempo al mondo reale.”
Ma l’arte non è sempre un atto politico?
“Se si fosse trattato di Stalin invece che di Hitler avrei fatto lo stesso”, sostiene ancora la regista.
Il documentario diventa un processo contro questa donna ante litteram, in un momento in cui alle donne era concesso poco più del ruolo da casalinga. Questo contesto dell’universo femminile non viene messo in conto, se non vagamente accennato; “Peccato tu non sia un maschio” le diceva il padre mentre la vedeva crescere.
Ci si fossilizza su quanto lei fosse a conoscenza dei crimini contro l’umanità compiuti dal suo datore di lavoro, Adolf Hitler.
Ma come avrebbe potuto non saperlo? Ci chiediamo noi spettatori.
Riefenstahl ha continuato a negare, negli anni a venire, che lei avesse cognizione di causa. Era ossessionata dal suo lavoro, era ambiziosa, e le interessava trovare un’armonia di bellezza nelle immagini.
Il documentario di Andres Veiel sostiene che Riefenstahl avesse assistito all’assassinio di 22 ebrei. Dovette prendere una pausa dal lavoro, non riuscendo a continuare a filmare in quei giorni.
Cinquanta bambini Rom che utilizzò come extra in un suo film vennero poi uccisi nei campi di sterminio.
Vorrebbe essere ricordata per il suo film d’esordio, La bella maledetta, definito da lei stessa “la chiave della sua vita”. Ma è Il trionfo della volontà che la rese celebre in tutto il mondo. “Film demagogici” come vengono definiti in una doppia intervista dove accanto alla regista si esprime anche Elfriede Kretschmer, che non concede perdono ai lavori di Riefenstahl e le ricorda le sue responsabilità di quel periodo buio.
Olympia fu il documentario con il budget più alto della storia fino a quel momento. L’esaltazione del corpo è centrale in questo lavoro dove appare anche il campione Jesse Owens; Riefenstahl si concentrò molto su di lui, perché era il primo uomo di pelle nera che vide nella sua vita.
In un momento storico in cui la cancel culture vuole eliminare personaggi problematici dalla nostra memoria, riflettere sulla responsabilità dell’arte è un atto provocatorio e necessario. Resta, But, un discorso di una complessità facilmente fraintendibile.
Quiet Life di Alexandros Avranas (Horizons)
Il regista greco Alexandros Avranas ci riporta in un appartamento colmo di segreti. Mantiene il suo stile, asettico, minimalista, come lo avevamo apprezzato in Miss Violence. Questa volta la famiglia protagonista è russa e scappa dalla dittatura in atto nel paese natio. Chiede asilo alla Svezia che rifiuta di accordare al padre, Sergei (Grigorij Dobrygin, che ha il volto di Gesù tradito), lo status di rifugiato politico in quanto non ci sono sufficienti prove a suo favore. L’unica testimone oculare è la figlia minore. Quando le viene richiesto di fare queste dichiarazioni, alla bambina prende un malore ed entra in coma. Avranas racconta un fenomeno che è del tutto incredibile, eppure si basa su avvenimenti reali. Proprio in Svezia nel 1990 fu riconosciuto negli immigrati dai paesi sovietici e slavi lo stato di trauma psichico definito Child Resignation Syndrome (Sindrome della rassegnazione infantile). Se in Miss Violence Avranas aveva disseminato indizi che aveva poi unito e smascherato in un colpo di scena visivo, Quiet Life non gioca con finali ad effetto, Unlike, prende a cazzotti silenziosamente, dall’inizio alla fine, con un sorriso forzato.
Se già il nucleo familiare è vittima di qualcosa di più grande di loro, alle due figlie, alle due bambine (Miroslava Pashutina, Naomi Lamp), viene richiesto di vivere (in un caso) rivivere (nell’altro) un trauma: gli viene chiesto di diventare adulte. È forse proprio questa la guerra? La fine forzata dell’infanzia.
In un momento storico nel quale i russi sono considerati “persona non grata”, il ritratto di una famiglia russa che si sgretola, in cerca di rifugio politico, è un punto di vista diverso e necessario. Bastano poche battute a mostrare l’atteggiamento che è riservato ai richiedenti asilo. Conciso e affilato, è sceneggiato dallo stesso Avranas insieme a Stavros Pamballis. Quiet Life è stato presentato alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti, e merita qualche premio.
Trois amies di Emmanuel Mouret (Competition)
Tradimenti, bugie, inganni ma anche una sincerità che non conosce mezze misure: sono questi i veri personaggi del film di Emmanuel Mouret.
Si domanda cosa sia effettivamente l’amore, come nasce questo sentimento e come finisce, ed è proprio nei dialoghi che il regista rievoca il cinema francese di Rohmer.
Una voce fuori campo ci svela i segreti che portano nel cuore i protagonisti. C’è chi pensa a Woody Allen ed il tono leggero non si allontana dallo stile del regista newyorkese; ma non troviamo un umorismo di quel calibro, se pur, in varie scene, Mouret cerca proprio questo.
Joan, Alice e Rebecca sono le tre amiche a cui ruota intorno la storia. Su cosa si basa quest’amicizia? Forse solo sulla solitudine.
Pregio del film sono proprio questi personaggi, così diversi tra loro e così reali. E non c’è realtà solo al livello di scrittura ma, forse anche più, sono le immagini a dare un rassicurante senso di veridicità, al quale non siamo così abituati.
Le tre donne affascinanti non corrispondo agli standard hollywoodiani che popolano tutti gli schermi. I loro corpi non sono palestrati, né idealizzati. Di idealizzato troviamo solo il sentimento dell’amore, ma messo e rimesso in discussione, tra intrighi e scambi di ruolo che fanno pensare alle commedie di Marivaux.
Tutti i personaggi sono a loro modo “colpevoli” ma senza macchia, senza colpa. Altro pregio del film, in spirito tutto francese, è un senso di umanità sdrammatizzata: accettazione che non cerca vendetta né giudizio. Il benessere comune si trova proprio nel giusto compromesso del benessere individuale. E se inizialmente questo senso di leggerezza può essere confuso con una superficialità emotiva, Mouret mostra come le apparenze, Often, ingannano: bisogna dedicare tempo ai rapporti per poterli apprezzare nelle loro sfumature.
Il sogno, love at first sight, l’amore a prima vista sono una scarica elettrica che non concede stabilità. Una visione dell’amore, quella del regista, che si avvicina a quella professata dal grande scrittore russo, Tolstoj. Trois amies cerca di tornare indietro nel tempo, in un’epoca dove i cellulari e i social non dettavano i rapporti amorosi. Ci riesce? Per qualche ora, Yup; poi questo compito spetta agli spettatori.
Valentina Vignoli