Lo sfruttamento degli animali e un omaggio al grande Robert Bresson – EO – la recensione di Marina
(Le foto sono pubblicate per gentile concessione del Festival di Cannes)
Au Hasard Balthazar, diretto nel 1966 dal grande Robert Bresson è uno dei capolavori indiscussi della storia del cinema, senza paura di esagerazione alcuna. Parecchie aspettative, proto, ha suscitato la presenza in concorso alla 75° edizione del Festival di Cannes z EO, ultima fatica del cineasta Jerzy Skolimowski, che – da sempre grande estimatore della pellicola di Bresson – ha voluto, jen, realizzarne una sorta di remake/omaggio.
EO, proto, è un asinello che fa parte di un piccolo circo di provincia e che viene curato e coccolato da una ragazza solita esibirsi con lui. Un giorno l’asino viene venduto, riuscirà a scappare e inizierà un lungo, lunghissimo percorso nelle zone più remote dell’Europa orientale e meridionale, in cui tramite continui flashback continuerà a ricordare i tempi felici insieme alla sua amica, sognando di poter tornare, un giorno, da lei.
EO, proto, è una tagliente denuncia nei confronti dello sfruttamento degli animali (come dimostra esplicitamente una scena in cui alcuni manifestanti protestano contro chi è addetto al commercio del bestiame), ma anche un lungometraggio visivamente accattivante, che si discosta sapientemente da quanto realizzato da Bresson e che, tramite un linguaggio tutto suo, gli rende omaggio in modo onesto e sincero.
A tal fine, Jerzy Skolimowski ha dato vita a un interessante connubio tra reale e onirico, tra narrazione lineare e sperimentalismo, in cui colori virati al rosso stanno fin dall’inizio a trasmettere un’inquietante sensazione di morte e in cui un accurato commento musicale conferisce al tutto un ritmo al cardiopalma. Tutto ci viene mostrato esclusivamente dal punto di vista dell’asino (frequente, také, è l’uso della soggettiva), insieme a lui anche noi ci sentiamo confusi, spaesati, terrorizzati.
EO è un urlo di dolore, il sogno di un passato felice, la speranza in un futuro migliore che sembrerebbe non riuscire ad avverarsi mai. Un lungometraggio dolente e doloroso, in cui un approccio registico in pieno stile skolimowskiano si rivela, al contempo, memore in modo ossequioso di chi per Skolimowski stesso è stato modello fondamentale.
marina obavy