#VENECIA79 - 31/8 -10/9/2022 ESPECIAL #7: (DÍAS 2 – 4) – reseñas de Vittorio De Agrò

(desde Venecia Luigi Noera con la amable colaboración de Maria Vittoria Battaglia, Vittorio De Agrò y Anna Maria Stramondo – Las fotos son publicadas por cortesía de la Bienal)

LUCA GUADAGNINO conquista il pubblico, Abel Ferrara si confronta con la spiritualità in Padre Pio (San Pio da Petralcina) usando incautamente l’inglese

VENEZIA 79 competencia

© 2022 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.

BONES AND ALL di LUCA GUADAGNINO con Taylor Russell, Timothée Chalamet, Mark Rylance, André Holland, Chloë Sevigny, Jessica Harper, David Gordon Green, Michael Stuhlbarg, Jake Horowitz / Estados Unidos / 130'

È complicato esprimere un giudizio definitivo sull’ultimo film di Luca Guadagnino. Il cinema di Guadagnino si ama o si detesta profondamente. La Mostra di Venezia ha spesso stroncato i lavori del regista palermitano (vedi Splash e Suspiria), ma stamani in Sala Darsena qualcosa è cambiato. Dovrei dirvi se mi sono “saziato” cinematograficamente assaggiando pezzi d’amore, di solitudine, di ferocia e diversità confluiti in una storia ambientata in una America rurale e lontana dai tradizionali canonici di rappresentazione. Il titolo stesso “Bones and all” (ossa e tutto in italiano) paradossalmente raccoglie molto dell’essenza narrativa e simbolica di uno testo ricco di spunti e di diversi livelli d’interpretazione

“Bones and all” è da una parte un classico road movie e dall’altro si snoda come una sorta di coming age /out della giovane Maren , scaturito dall’abbandono paterno. Maren sarà messa di fronte alla sua indole più recondita e pericolosa. “Bones and all” gronda letteralmente sangue tramite scene forte e cruenti per poi cambiare tono diventando dolce e romantico nella pagina successiva della sceneggiatura. “Bones and all” emana, odora, insegue , chiede d’essere saziato d’amore ed allo stesso tempo i protagonisti si nutrono di carne umana. Maren e Lee sono due anime sole, selvagge, abbandonate dalle rispettive famiglie e sono entrambi dei cannibali.

Fino a ieri Il cannibale più famoso della storia del cinema era stato senza dubbio il Dr Hannibal Lecter. Da oggi invece i giovani avranno un modello di coppia cannibale come riferimento. Maren e Lee vogliono amore, affetto , ma tale desiderio di normalità può avere una risposta in una natura ed inclinazione da “lupi solitari”?

“Bones and all” mi ha ricordato per alcuni versi il controverso “Born in Killer” di Oliver Stone del 1994, in entrambi casi la patologia /diversità unisce e rende unico il rapporto della coppia. “Bones and all” merita probabilmente una seconda e più attenta visione per scovare tutti gli aspetti più significati e reconditi di una storia che procede a strappi, alternando fino all’ultima scena attimi di bellezza ad orrore, passaggi di ferocia e tenerezza, stati rabbia al desiderio di protezione. Un danza intensa quanto sfibrante che lascia lo spettatore in uno stato di incertezza su quanto abbia davvero visto e provato. Disgusto o condivisione nel voler parte di una tribù, coppia, comunità anche se sui generis? Allo spettatore in sala come sempre è data l’ultima parola.

MONICA di ANDREA PALLAORO con Trace Lysette, Patricia Clarkson, Adriana Barraza, Emily Browning, Joshua Close / Estados Unidos, Italia / 106'

“La mamma è sempre la mamma.”

“Di mamma ce n’è una sola”

“Ogni scarrafone è bello a mamma soja”

La saggezza popolare ci ricorda come nella vita abbiamo poche certezze ed una di queste è sicuramente l’amore materno. Possiamo litigare, allontanarci dalla propria madre magari per un lungo periodo, ma alla fine “il richiamo della foresta” è più forte di qualsiasi dissidio o paura di non riconoscersi più. Da bambini ci illudiamo che i nostri genitori siano eterni, indistruttibili, li vediamo come degli eroi, ma poi crescendo ne scopriamo i limiti, i difetti arrivando a detestarli perché incapaci di capire le nostre esigenze e vedere il nostro vero Io.

Monica è il racconto di un improvviso quanto doloroso “ritorno a casa “ compiuto fisicamente ed emotivamente dalla protagonista, che mai avrebbe pensato di compiere. L’inizio del film ci presenta una figura femminile decisa, sensuale, curata, elegante, nonostante ciò è alle prese con una seria crisi di coppia, che affligge la donna . Non abbiamo altri elementi su chi sia Monica, quando riceverà una telefonata d’aiuto da parte di una donna. Quella donna è Laura, una cognata mai conosciuta prima, che le ha chiesto di tornare a casa perché il cancro sta uccidendo sua madre. Monica, sebbene riluttante, accoglie quest’invito, nonostante da più di vent’anni non abbia rapporti con la propria famiglia. Monica entra in punta di piedi a casa sua, quasi fosse veramente un’estranea, sentendosi di troppo in un contesto familiare che non riconosce più come proprio. Lo stesso fratello inizialmente stenta a riconoscerla, ma c’è una buona ragione. Vent’anni fa non c’era Monica, ma un ragazza imprigionata in un corpo maschile. Un ragazzo che si è ritrovato ad affrontare da solo questa difficile transizione, essendo stato, anni prima, disconosciuto come figlio dalla stessa madre

Andrea Pallaoro e Orlando Tirado hanno dimostrato sensibilità oltre che talento nell’affrontare e sviluppare tematiche così complesse e controverse in unico contesto narrativo: la transizione sessuale, la malattia di un genitore e la pacificazione familiare.

C’erano le condizioni perché una storia così potente e simbolica potesse scivolare in una spirale drammatica e da toni eccessivi o melodrammatici. Invece Pallaoro ha stupito positivamente optando per uno stile di racconto essenziale, misurato, pacato e segnato da un ritmo lento, diluito. Una scelta autoriale che riteniamo felice , coerente e convincente sotto aspetto , con il fin di far scoprire allo spettatore gradualmente il “segreto” di Monica. “Monica” è un film che si prende tutto il tempo necessario nello spiegare, mostrare i rapporti attuali e pregressi tra i personaggi e quali effetti e cambiamenti sono in corso con il ritorno di Monica. Il prima e dopo di Monica sono affrontati con pudore, delicatezza, senza cedere mai ai cliché e stereotipi.

Trace Lysette è Monica e più che mai in questo caso dobbiamo dire che il film è incentrato, retto dalla potente, toccante e delicata interpretazione dell’attrice americana. Lysette ha retto il peso dell’intero film, fornendo un’esibizione per sottrazione, dando spazio al proprio corpo in modo pudico quanto carico di pathos e dignità. Il lento quanto toccante riavvicinamento tra madre e figlia conquista e commuove lo spettatore, anche grazie all’affiatamento e naturalezza mostrata dalla coppia Trace Lysette, Patricia Clarkson nelle scene girate insieme.

Ci si può allontanare dalla propria famiglia, sentendosi incompresi, non accettati e financo rinnegati. Ma la storia di Monica ci regala la commovente e poetica conferma, che con tutti i limiti del mondo, solo la tua famiglia può darti quella serenità lungamente inseguita.

Nos divertimos mucho con el documental de EMIR KUSTURICA sobre el expresidente de Uruguay Pepe Mujica

POUR LA FRANCE di RACHID HAMI con Karim Leklou, Shaïn Boumedine, Lubna Azabal, Samir Guesmi, Laurent Lafitte, Vivian Sung / Francia, Taipei / 113'

La scrittura ed in più in generale l’arte possono svolgere una funzione catartica, lenitiva, salvifica anche dal dolore più forte e straziante come la tragica ed improvvisa morte di un fratello.

“Pour la France” come indicato nei titoli di testa è ispirato ad una storia vera. Abbiamo scoperto dopo che la storia riguarda quella di Jallal Hami, fratello del regista, vittima di nonnismo mentre prestava servizio in una prestigiosa accademia militare in un fredda notte d’autunno del 2012. Rachid Hami ha voluto omaggiare “a suo modo” la memoria del fratello, ripercorrendo la vicenda, ma andando anche oltre, trovando una buona sintesi tra esperienza personale sguardo sincero sulla Francia e sui rapporti familiari. Hami ha optato per un struttura narrativa divisa su due piani temporali.

Sullo schermo si alternano scene del presente con la camera ardente del fratello e flash back del passato divisi tra l’Algeria (paese natio della famiglia) e Taiwan dove il defunto frequentava un master. Una scelta narrativa e temporale che si rivela complessivamente convincente e funzionale al progetto: raccontare senza urlare

Condividere un dolore senza per forza dover indicare un colpevole. Hami ha voluto unire passato e presente della sua famiglia costretta dalla tragedia a riunirsi e parlarsi di nuovo. A dieci anni dalla tragedia il regista ha voluto dire la sua sulla tragedia, sulla Francia, sul nonnismo e sulla sempre più difficile convivenza interraziale.

Ismael ( un credibile quanto enigmatico Karim Leklou) ricevuta la tragica notizia dalla madre, non può fare altro che accompagnarla a ritirare il corpo. I volti sgomenti , piangenti, affranti quanto composti e dignitosi rappresentano però una versione diversa e lontana dal solito mood rabbioso dei francesi naturalizzati , così raccontati al cinema negli ultimi anni. La famiglia di Aissa vuole si giustizia, chiede di sapere perché e chi ha ucciso un ragazzo di 23 edad, ma altresì lotta per avere una sepoltura in un cimitero militare. Perché cosi avrebbe voluto Aissa, che aveva scelto di servire la Francia indossando la divisa.

Pur affrontando molti delle questioni più attuali della società francese , il regista allarga il fronte narrativo ed esistenziale del film, ripercorrendo in particolare alcuni momenti della vita di Ismaël vissuti insieme al fratello e/o da solo in Algeria, Francia e Twain. Ismael è il fratello maggiore ma anche la pecora nera della famiglia. Con la morte di Aissa, tutto cambierà per lui, dovendo finalmente scegliere chi essere da grande. Hami ci offre una visione asciutta, diretta, delicata e scevra da qualsiasi forma di melodramma o vittimismo. “Pour la France” partendo da una tragedia terribile e familiare, diventa un film corale, universale e poetico che ognuno potrà sentire un posuo in ogni suo passaggio.

ORIZZONTI EXTRA

L’ORIGINE DU MAL – FILM DI APERTURA di SÉBASTIEN MARNIER con Laure Calamy, Doria Tillier, Jacques Weber, Dominique Blanc, Suzanne Clément, Céleste Brunnquell / Francia, Canadá / 125'

Quanto è importante , vitale per chiunque di noi sentirsi amati, accettati ? La famiglia rappresenta un’ istituzione opprimente o possiamo ancora vederla, sentirla come un luogo sicuro? Ed ancora esistono ancora delle famiglie felici o proprio all’interno del nucleo familiare si sviluppano gli istinti più oscuri e feroci dell’uomo?

Ogni famiglia ha la propria storia, segreti e scheletri dell’armadio che possono sconvolgere lo status quo: come ad esempio l’arrivo di figlia illegittima quanto desiderosa di ottenere un pod’affetto paterno. Il film è un arzigogolato tentativo creativo di mescolare il genere noir con il dramma familiare cercando d’imitare i toni e soprattutto lo stile unico di Alfred Hitchock nel raggiungere il climax facendo sobbalzare ed inquietare lo spettatore. Invece si rivela essere una sorta di “fritto misto” drammaturgico in cui l’intreccio cambia con troppa facilità pelle, identità e genere con il solo scopo di sorprendere, ma finendo così per rendere la visione dispersiva, lunga e cervellotica.

Lo spettatore fatica nel trovare il giusto mood psicologico per approcciarsi ad una visione disturbante, cupa e cinica sulla famiglia. Chi è davvero Stephanie? La donna è una novella Cenerentola oppure è un abile manipolatrice?

In effetti è un inno nascosto alla doppiezza del Cinema!

Laure Calamy sfodera una performance davvero sontuosa, ardita, ricca di sfumature e contraddizioni psicologiche con l’obiettivo parzialmente riuscito di rendere impossibile allo spettatore di capire la vera natura del suo personaggio. Ma nonostante i talenti attoriali della Calamy e della beklla Dorian Teller, insolitamente quanto efficacemente sotto tono, la storia sbanda continuamente come se il regista non avesse chiaro con quale taglio indirizzarla e soprattutto chiuderla ( c’erano almeno 3 finali più che plausibili, rispetto a quello scelto decisamente grottesco e stridente con quanto visto per quasi due ore.

“L’origine del male” è costruito come fosse un gioco di specchi in cui il ruolo di vittima e carnefice si scambiano e confondono tra i personaggi di una famiglia in cui l’odio ed il sospetto reciproco rappresenta l’unico collante possibile. Avrebbe voluto raccontarci, mostrarci e soprattutto trasmettere tramite i diversi personaggi come l’assenza o meno di una famiglia nella vita di una persona possa essere decisivo spesso in negativo. Ma questo affresco familiare voluto da Sébastien Marnier e presentato qui in Laguna, appare decisamente forzato e sprezzante sull’idea famiglia senza possedere però la forza destabilizzante che ebbe all’epoca il film danese “Festen”.

In conclusione possiamo affermare che sono proprio le persone più instabili a sentire bisogno di una famiglia anche a costo di compiere atti truffaldini ed impensabili pur di farne parte.

Fuera de Competición – FICTION

PEARL di TI WEST con Mia Goth, David Corenswet, Tandi Wright, Matthew Sunderland, Emma Jenkins-Purro / Estados Unidos / 102'

“Pearl” di Ti West ribalta meritoriamente le mie granitiche certezze sulla saga “X” , oltre ad offrire il ruolo della vita all’attrice Mia Goth. Pearl nel primo film era il nome della vecchia donna che animata da insospettabili quanto irrefrenabili desideri insieme al marito compiacente, aveva dato inizio al massacro della troupe cinematografica, mostrando di possedere un’ innata e sconcertante ferocia. Tante domande erano rimaste sospese su questa donna. Chi fosse realmente e quali motivi l’avessero portata a diventare un’assassina senza scrupoli.

Ti West aveva già in mente di rispondere a tutti questi interrogativi realizzando un prequel davvero inquietante, folle, ancora più splatter, ma migliorato da un salto qualitativo in fase scrittura. Si nota infatti lo sviluppo psicologico ed esistenziale realizzato sulla protagonista ed il parallelismo sanitario -politico tra il periodo della” febbre spagnola” e quello vissuto da noi con il Covid 19. Se da una parte Pearl è apparentemente una ragazza della sua epoca: sposina con il marito al fronte , confinata in una sperduta fattoria e vessata da una rigida madre, dall’altra avvertiamo chiaramente come questo status di cose è destinato a cambiare. Pearl sogna il mondo spettacolo, brama le luci della ribalta, si sente bella, brava e non disegna le attenzioni di altri uomini. Non accetta un futuro da stupida e povera contadina che la madre gli prospetta ogni volta che discutono. Pearl nasconde un lato oscuro, minaccioso che sempre più spesso emerge dietro quel volto angelico e sorridente. Mia Goth è straordinaria nel ruolo dell’instabile, vogliosa, feroce quanto ingenua Pearl.

Goth ha radicato nel suo personaggio un’ aurea di sconcertante cattiveria e spietata determinazione ben nascosta dentro i panni di una semplice contadina. Mia Goth incarna magistralmente lo scivolamento verso la follia della ragazza, derivante dalla brusca fine dell’illusione artistica. Nessuno si salverà dalla furia di Pearl quando si rende conto che i suoi sogni di gloria sono stati drasticamente ridotti. Il mondo dello spettacolo è una giungla, pochi ne escono vivi e sani. Questi pochi , devono augurarsi di non incontrare Pearl, poco incline ad accettare le vittorie e le gioie degli altri.

GdA SELEZIONE UFFICIALE IN CONCORSO

PADRE PIO di Abel Ferrara Italia, Alemania, Reino Unido, 2022, 104'

Mi ha colpito legittimo stupore quando ho scoperto che il provocatorio regista americano Abel Ferrara avesse dedicato il proprio tempo e creatività nel firmare una pellicola su “Padre Pio” oltre tutto in concorso a Venezia 79, nella sezione parallela delle “Giornate degli Autori”. Una curiosità mista al timore di qualche “blasfemia” cinematografica mi ha accompagnato durante l’intera visione.

Ebbene, chiariamo subito il punto: Abel Ferrara ha affrontato il tema “Padre Pio” mostrando un “laico “rispetto” e dando prova di una buona conoscenza storica e sociale dell’Italia del 1919. “Padre Pio” non si rivela strutturalmente e stilisticamente come un biopic sul santo come ci aspetteremmo dal titolo , ma bensì è parte di un affresco più ampio e drammatico di un Paese uscito devastato, impoverito dalla guerra e con i reduci tornati dal fronte illusi d’essere accolti come eroi ed invece trattati come “carne da macello” dai padroni

L’arrivo del giovane frate Pio al monastero di San Giovani Rotondo è paradossalmente oscurato dal più atteso rientro dei soldati in paese, dove ci sono genitori, mogli e figli in angosciante e trepidante attesa del proprio caro, San Giovanni Rotondo è il simbolo di un ‘Italia povera, ferita, umiliata e soprattutto dove le ingiustizie sociali sono evidenti e legittimate dal potere costituito.

La rabbia degli ultimi è forte e trasversale sospinta dagli echi della rivoluzione bolscevica che ha deposto lo Zar. Soldati, mujeres, contadini sono accomunati dal desiderio di cambiamento e pronti alla lotta politica per rovesciare nelle elezioni amministrative il governo locale composto da proprietari terreni, ecclesiastici ed il nascente partito fascista. Ferrara ha deciso d’alternare sulla scena il tumulto sociale ed esistenziale degli abitanti della comunità, al tumulto spirituale vissuto da un Padre Pio in continua lotta contro le apparizioni e tentazioni del maligno.

Volendo azzardare un comune filo rosso di queste due storie che mai si toccano sullo schermo, possiamo dire che Ferrara abbia voluto mostrare un duplice scontro tra il bene ed il male , in chiave spirituale con la lotta di Padre Pio con il Diavolo impersonificato anche da Asia Argento e dall’altra il male incarnato dai poteri locali che si rifiuteranno di riconoscere prima i diritti e poi la vittoria elettorale dei “rossi”.

“Padre Pio” è un film visionario quanto crudo, simbolico quanto amaro, girato interamente in lingua inglese che, a nostro modesto parere, ha rappresentato un grave vulnus alla fluidità e credibilità di una storia visceralmente italiana.

Ci permettiamo di dire che Abel Ferrara avrebbe dovuto optare per la lingua italiana, anziché puntare all’idea universale del messaggio.

Shia Labeouf si è calato con grande umiltà, intensità nel difficile quanto controverso ruolo di Padre Pio ,trovando un giusto equilibrio attoriale oltre che umano, ma finendo “prigioniero” della visione artistica e drammaturgica di Abel Ferrara.

“Padre Pio” ha due anime, due visioni ,due storie che faticano visivamente ad armonizzarsi, depotenziando l’idea di partenza ed il fascino di un biopic particolare ed affascinante.

Difficile da stabilire oggi se questa versione di“Padre Pio” potrà conquistare il cuore del pubblico italiano o magari scatenare i malumori dei devoti del santo di Pietralcina, ma sicuramente il film di Abel Ferrara farà discutere e dividerà, come nelle migliori tradizioni italiche.

BLUE JEAN di Georgia Oakley – opera prima United Kingdom, 2022, 93'

Ci si deve nascondere, vergognare del proprio indirizzo sessuale? Un omosessuale, una lesbica è meno credibile, competente , professionale di un etero? Un insegnante gay è qualificato per insegnare ai nostri figli? L’inclinazione sessuale dovrebbe essere esplicitata solamente per la comunità LGBT?

Oggi queste domande appaiono fastidiose, assurde ed illogiche anche solo da sentire, invece trent’anni fa erano ricorrenti e rilanciate e sostenute da una grossa fetta dell’opinione pubblica in Italia ed anche nella liberale Inghilterra.

Nell’Inghilterra conservatrice di Margaret Thatcher, la diversità assumeva un significato negativo. La diversità in campo sessuale era vista e classificata come una “devianza che la società doveva contenere, correggere, limitare.Nel 1988 i conservatori tentarono di far approvare una proposta di legge che equiparava gli omosessuali ai pedofili, negandogli la possibilità d’insegnare nelle scuole perché ritenuti moralmente inadeguati oltre che professionalmente .

“Blu Jean” ci conduce emotivamente ed esistenzialmente in quel drammatico momento storico, conoscendo la complessa storia di Jean, brava e bella insegnante di educazione al liceo. Jean ama il proprio lavoro, segue con attenzione le sue studentesse, ha una vita tranquilla, semplice ed ama la propria compagna, una donna tosta e carismatica. Già Jean vive una doppia vita: di giorno insegnante modello e mente di sera vive la sua esperienza lesbo dopo un infelice matrimonio e doloroso divorzio.

Jean si sforza di vivere, tenere insieme queste due vite volendo fornire all’esterno un senso di normalità e rispettabilità. Jean è bellissima quanto schiva, quasi silenziosa, impegnata con tutte le sue energie nel reprimere proprie emozioni e sensazioni, volendo proteggersi dal giudizio e pregiudizio della società e della sua famiglia. Jean è scappata da una vita che non le apparteneva, se ne è costruita una nuova più vera e adatta alla propria natura, eppure è costretta ad indossare ogni giorno una maschera.

Jean sebbene sia ribellata ad un destino scritto da altri e seguito il proprio istinto, è rimasta ingabbiata in un mondo scolastico retto dall’ipocrisia e pregiudizi. L’equilibrio mentale e sociale di Jean viene meno quando Louise, una sua studentessa si dichiara lesbica nonostante i problemi e pregiudizi destinati a subire dai suoi compagni di scuola. Louise vorrebbe avere il sostegno di Jean , non sentendosi sola in questa sfida, ma l’insegnante si rivela inizialmente pavida di fronte a questa richiesta d’aiuto. Il coraggio di Louise nel mostrarsi per quello che è rappresenta un vulnus per Jean che invece ha scelto di indossare una doppia maschera pur d’essere accettata in società. Jean dovrà affrontare i propri demoni interiori e scegliere da quale parte stare e soprattutto dimostrare d’essere la giusta insegnante anche di vita per Louise.

“Blue Jean” è un film intenso, vibrante, emozionante che pur raccontando un momento storico ormai lontana, non sfugge quanto sia ancora attuale e drammaticamente divisivo.

Rosy McEwen è una bravissima, magistrale, credibile interprete di Jean incarnandone bellezza ed inquietudine, coraggio e timore, orgoglio e riscatto. Rosy Mc Ewen regge il peso dell’intero film con grande forza, naturalezza e talento rivelandosi l’arma in più della regista che firma un bellissimo racconto di formazione ed emancipazione femminile e civile, avendo come unico limite quello dei “troppi finali”.

Peccato che “Blue Jean” poteva concludersi già diverse volte nell’ultimi venti minuti. Quest’attesa della fine provoca una riduzione della fluidità e del ritmo di una visione che resta comunque di grande valore ed impatto.

SIC 37

Película de apertura: THREE NIGHTS A WEEK Trois par semaine nuits Florent Gouëlou Francia 102

“Al cuor non si comanda” recita un vecchio proverbio.

Le leggi dell’attrazione sono misteriose, potenti, quanto inspiegabili.

Nonostante la mia personale resilienza a certi tipi di cambiamenti ed orientamenti, è ormai chiaro come la sessualità non si possa più “racchiudere” all’interno di un classico ed esclusivo doppio schema : maschio e femmina.

I generi sono molteplici ( gender, trans, drag, fluido), rischiando di mandare ai matti anche chi responsabilmente desidera essere costantemente aggiornato su queste categorie.

La stessa grammatica è stata forzata per non mortificare le sensibilità di chi non si sente “rappresentato” da un singolare pronome (Lui o Lei) a favore di un più rassicurante e generico “Loro”.

Confesso d’aver avuto qualche difficoltà nell’individuare corretto mood per valutare “Tre notti a week end” , film d’apertura della Settimana della Critica”.

Non possedendo una solida conoscenza del “sotto genere” drag queen ad eccezione di alcune figure stereotipate di romanzi od immagini di qualche celebre film, non mi è apparso subito chiaro quale fosse il focus narrativo ed emozionale ricercato in scrittura e poi sulla scena da Florent Gouëlou.

“Tre notti a week end” è stato costruito con l’ambizione registica di tenere insieme il genere commedia romantica e l’universo drag queen con l’aggiunta del “sempre verde “ triangolo amoroso, elemento tanto caro alla cinematografia francese.

Sulla carta queste ambizioni potevano anche un senso , ma sfortunatamente nella messa in scena, l’intreccio si è rivela forzato, prevedibile, stereotipato almeno sul versante commedia romantica.

L’improvvisa quanto fulminea attrazione /interesse di Batpiste verso Cookie, giovane drag queen, appare poco credibile , forzata non giustificata dai fatti narrativi ed evoluzioni sentimentali e intime.

La curiosità, il desiderio di conoscere , di provare che doveva essere la scintilla dell’avvicinamento tra i due personaggi è banalizzato, percepito semmai come un momento di noia, indecisione di Baptiste che mal si concilia con il desiderio autoriale di far conoscere la comunità drag queen.

Una comunità frizzante, colorata, rumorosa in cui una certa teatralità collettività ed unicità introspettiva si alternano con efficacia e sensibilità sulla scena attraverso gli altri personaggi.

Quello sì che è un passaggio riuscito sul piano visivo, narrativo oltre che stilistico offrendo allo spettatore una prospettiva fresca ed inusuale sulle drag queen in chiave competitiva ed identitaria.

Se il triangolo amoroso Batpiste- Cookie -Samia non buca lo schermo rimanendo bloccato dentro i soliti cliché, sorprende invece positivamente quando i riflettori si accendono su Quentin.

Quentin è ragazzo sorridente, gentile quanto ambizioso che si nasconde dietro il trucco e l’eccessività da drag queen, evidenziando le contraddizioni di una persona di voler vivere liberamente una doppia vita.

Romain Eck è versatile, poliedrico, carismatico dimostrando di possedere artisticamente ” spalle larghe” per supplire ai limiti strutturali e difetti di scrittura sopracitati.

“Tre notti a week end” è complessivamente un film incompiuto, imperfetto, ma possedendo alcuni elementi che ne legittimano la visione regalando un sorriso e uno spunti di riflessione anche allo spettatore più conservatore.

MARGININiccolò Falsetti Italia 91’

“Margini” di Daniele Falsettti ,unico film italiano in concorso nella Settimana della Critica, ha il merito di raccontare una storia, una passione, un ‘esperienza che lo spettatore più comune può comprendere e magari sentire propria nonostante sia stato inserito in una sezione generalmente molto sperimentale

“Margini” è una storia di musica, d’amicizia e riguarda in ultima analisi l’ affermazione di sé , puntando narrativamente e strutturalmente tutto sulla sfera umorale e personale dei tre giovani protagonisti evitando fortunatamente un taglio criptico, autoriale-

“Margini” possiamo idealmente inserirlo a metà strada tra due film cult e generazionali quali “Ovosodo “ di Virzi e “Radio freccia” di Ligabue, accomunati dall’amore per la musica, il passaggio generazionale ed esistenziale vissuto dai personaggi.

“Margini” presenta uno script lineare, asciutto, basico dando vita ad una storia che si muove su linee narrative e stilistiche già battute , a tratti prevedibili, ma comunque resa godibile e divertente da un cast artistico adeguato e brioso.

“Margini” presenta diverse sfumature e toni che si sforza d’essere un genere “indie” , ma finendo però per risultare una commedia generazionale agrodolce senza mai raggiungere picchi elevati.

“Margini” è quel classico film che una volta visto, sarà ricordato con affetto mista ad amarcord, ma senza ulteriori “margini” migliorativi.

Vittorio De Agrò (RS)

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