Dopo il successo del film Horror inaugurale una riflessione del cineasta russo Kirill Serebrennikov. Ma anche Pietro Marcello alla Quinzaine è la conferma del potere del cinema.
(da Cannes Luigi Noera e Marina Pavido – Le foto sono pubblicate per gentile concessione del Festival di Cannes)
Amori impossibili e il ruolo della donna nella Russia dell’Ottocento – Tchaikovsky’s Wife – Kirill Serebrennikov non ha paura di osare, di “spiccare il volo”
Il celebre compositore russo Piotr Tchaikovsky ha avuto una vita personale decisamente degna di nota, anche se, ad oggi, ancora sconosciuta ai più. A mettere in scena le sue singolari vicende – focalizzando la propria attenzione soprattutto sulla figura di sua moglie, Antonina Miliukova – ha pensato il cineasta russo Kirill Serebrennikov, in corsa per la tanto ambita Palma d’Oro al Festival di Cannes 2022 con il suo Tchaikovsky’s Wife.
Antonina (impersonata da una straordinaria Alyona Mikhailova) conosce il giovane compositore (Odin Lund Biron) durante una festa a casa di amici in comune. La giovane – che nel frattempo studia presso il conservatorio dove egli insegna – se ne innamora immediatamente e decide, così, di scrivergli una lettera. Dopo le iniziali remore di lui, i due si sposano, ma il compositore si dimostra sempre distante, al punto da decidere, appena poche settimane dopo il matrimonio, di partire, con l’intento di allontanarsi definitivamente dalla moglie.
In Tchaikovsky’s Wife, il regista – attraverso la storia di due singole persone – ha aperto un discorso ben più ampio. La società dell’epoca, le leggi che sembravano non favorire affatto la posizione della donna, ma anche l’omosessualità e la necessità di “nascondere” il proprio orientamento sessuale, dunque, fanno qui da protagonisti assoluti. Protagonisti di un importante spaccato sul passato della Russia, che se, da un lato, si distingue per una sceneggiatura tutto sommato lineare e priva di particolari guizzi, dall’altro colpisce immediatamente per l’estrema cura della messa in scena.
Kirill Serebrennikov non ha paura di osare, di “spiccare il volo” da un crudo realismo, attingendo a piene mani dall’onirico e dal soprannaturale (possiamo vederlo già nella scena iniziale, quando Piotr Tchaikovsky, ormai sul letto di morte, si alza improvvisamente per inveire contro sua moglie, così come nei momenti in cui la donna – ormai in preda alla follia – si trova a vagare solitaria per le strade della città). Allo stesso modo, intensi primi piani su dettagli (come una fotografia o un anello nuziale) e sui volti dei protagonisti conferiscono potenza e umanità a questo suo importante lungometraggio.
E poi c’è lei, l’eccezionale Alyona Mikhailova nel ruolo della protagonista. A lei il compito di reggere sulle sue spalle l’intero lungometraggio. A lei il compito di regalarci un ritratto vivo e pulsante della sfortunata e irrimediabilmente innamorata Antonina Miliukova. Composta e mai sopra le righe, l’attrice è riuscita a rendere appieno la gioia dei primi tempi, ma anche le pene d’amore e – soprattutto – la follia di una donna bistrattata dal marito e dalla società, vero e proprio fiore all’occhiello di questo raffinato Tchaikovsky’s Wife.
L’importante documentario prodotto da Forest Whitaker – For the Sake of Peace – un imperativo per il Festival di Cannes
L’attore Forest Whitaker riceverà la Palma d’Oro d’Onore al Festival di Cannes 2022. Un grande traguardo per il celebre interprete statunitense, indubbiamente. Eppure, questa non è l’unica soddisfazione per lui. Nella giornata d’apertura della celebre manifestazione cinematografica, infatti, Whitaker ha presentato in qualità di produttore – nella sezione Séances Spéciales – il documentario For the Sake of Peace, opera prima dei registi Christophe Castagne e Thomas Sametin, in cui attraverso una drammatica situazione contemporanea viene anche trasmesso un potente messaggio di speranza.
Nel Sudan del Sud per anni si è combattuta una guerra che ha diviso in due la popolazione e al seguito della quale migliaia e migliaia di persone hanno perso la vita. Nonostante la fine del conflitto, tuttavia, v’è ancora parecchia ostilità tra le due fazioni. Al fine di risolvere per sempre tali ostilità, vi sono, però, due figure centrali che con la loro tenacia e i loro ideali hanno fatto parecchi passi avanti: Gatjang – che da anni cerca di trasmettere attraverso il gioco del calcio valori come il saper fare squadra e il rispetto per il prossimo – e Nandege – una giovane madre che da molto tempo ha intrapreso un’attività di mediatrice, al fine di favorire il dialogo tra i popoli.
I due registi, dunque, in questo loro importante documentario, hanno seguito passo passo le loro vicende e le loro attività, lasciando che gli stessi protagonisti raccontassero le loro avventure e si raccontassero a loro volta davanti alla macchina da presa. Un’operazione indubbiamente interessante, la presente. Soprattutto perché il tema trattato è purtroppo, ancora oggi, sconosciuto ai più.
Il problema principale di un documentario come For the Sake of Peace, però, è proprio un approccio registico eccessivamente didascalico, che penalizza fortemente ciò che viene messo in scena, le storie dei singoli, gli ambienti di volta in volta visitati. Allo stesso modo, una musica a volte troppo invasiva altro non fa che conferire al tutto un carattere quasi televisivo, che, a sua volta, fa perdere pericolosamente di mordente l’intero lavoro. Peccato. Soprattutto perché le due figure protagoniste sono indubbiamente personaggi con un’accattivante verve e un indiscusso magnetismo. For the Sake of Peace sicuramente è mosso da buoni intenti. I due registi dovrebbero imparare a “lasciarsi andare”, senza aver paura di osare con la loro macchina da presa. Bisognerà vedere cosa sapranno regalarci in futuro.
Legami famigliari e un futuro tutto da scoprire – L’Envol – presentato alla Quinzaine come film d’apertura
Il cineasta italiano Pietro Marcello è un vero è proprio motivo d’orgoglio per quanto riguarda il cinema italiano contemporaneo. Dopo i successi di Bella e perduta (2015) e Martin Eden (2019) eccolo approdare alla Croisette con la sua ultima fatica: L’Envol, film d’apertura della Quinzaine des Réalisateurs del 75° Festival di Cannes.
La storia messa in scena, dunque, è quella della giovane Juliette (impersonata da Juliette Jouan), la quale, rimasta orfana di madre in fasce, vive in un piccolo paese del nord della Francia insieme a suo padre Raphaël (Raphaël Thiery), un uomo taciturno, nonché falegname di straordinario talento, reduce dalla Prima Guerra Mondiale. Ancora bambina, Juliette incontra nel bosco una maga che le predice che un giorno alcune “vele scarlatte” arriveranno nel suo villaggio per portarla via lontano. Si avvererà mai questa bizzarra profezia?
L’Envol è la storia di un tenero rapporto tra padre e figlia, ma anche il ritratto di antiche credenze popolari, che apre a sua volta un importante discorso sulla diversità e l’emarginazione. Juliette, da bambina, viene bullizzata dai suoi coetanei a causa di un gesto compiuto da suo padre anni prima al fine di vendicarsi di un uomo che, a suo tempo, aveva violentato sua moglie. Quando gli anni passano, tuttavia, il paese sembra essersi dimenticato dell’accaduto e Juliette, ormai una giovane donna che per vivere fabbrica giocattoli, dimostra uno straordinario talento per la musica. Il suo mondo sembra quasi una realtà a sé. Una realtà che sembra non venire mai scalfita da quanto succede all’esterno e che, nonostante le avversità, riesce (quasi) sempre a mantenere un proprio equilibrio.
Pietro Marcello è attento a ogni minimo dettaglio, riesce a realizzare atmosfere fortemente evocative, in cui la calma di una giornata soleggiata di inizio estate può essere scalfita soltanto da fiamme che illuminano una notte apparentemente tranquilla. Colori saturi e una fotografia volutamente grezza, ruvida, in grado di conferire tridimensionalità a ogni cosa filmata fanno il resto. Tragedie e momenti di lieto raccoglimento, realtà, ma anche un velo di magia rendono il presente L’Envol una vera e propria chicca di questa 75° edizione del Festival di Cannes e confermano ancora una volta lo straordinario talento di Pietro Marcello. Ancora una volta, il regista e documentarista di Napoli ha perfettamente colto nel segno.
E terminiamo con lo sguardo alla Semaine de la Critique, sezione autonoma del Festival:
Grande apertura mercoledì 18 maggio per la Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2022. In questa giornata, infatti, sono stati proiettati i lungometraggi When you finish saving the World, opera prima dell’attore Jesse Eisenberg, e Alma viva, primo lungometraggio della regista franco-portoghese Cristèle Alves Meira. Due esordi, due scorci su mondi differenti, un importante comun denominatore: i delicati rapporti famigliari con tutte le loro mille sfaccettature.
Un delicato rapporto madre-figlio e antiche tradizioni popolari – When you finish saving the World e Alma Viva
In When you finish saving the World, viene messo in primo piano il fragile rapporto tra una madre in carriera e un figlio adolescente, entrambi con nobili intenti per rendere il mondo “un posto migliore”, ma che, al contempo faticano a trovare canali di comunicazione nella vita di tutti i giorni. Evelyn (impersonata da Julienne Moore) lavora in un centro di accoglienza che si occupa di giovani madri in difficoltà. Suo figlio Ziggy (Finn Wolfhard) scrive canzoni e ha un canale youtube dove si esibisce, spesso in diretta, per i suoi fan.
I due protagonisti inizialmente sembrano agli antipodi. Poi, lentamente, scoprono di avere molte più cose in comune di quanto inizialmente possa sembrare. Una storia piuttosto semplice, che già più e più volte nel corso degli anni è stata messa in scena. Persino – come in questo caso – all’interno di lungometraggi indipendenti americani, molti dei quali hanno riscosso anche un discreto successo. Pur senza particolari guizzi, però, Jesse Eisenberg ha svolto un lavoro complessivamente pulito, per un lungometraggio semplice e delicato che vede il suo maggiore punto di forza in un sottile gioco di sguardi tra madre e figlio durante il quale non v’è bisogno di parola alcuna.
Di ben altro stampo, invece, è Alma viva. Ambientato in un piccolo villaggio portoghese, il lungometraggio vede nella piccola Salomé (impersonata da una straordinaria Lua Michel, figlia della regista) e in suggestive tradizioni popolari i suoi grandi punti di forza. Come ogni estate, la bambina – che vive in Francia con i suoi genitori – va in vacanza nel villaggio di sua madre. Qui le tradizioni legate alla morte di una persona e alla reincarnazione del suo spirito in altri abitanti della casa sono ancora molto forti. Quando la sua adorata nonna muore improvvisamente, anche la piccola Salomé sembra essere in preda a un’insolita possessione, quasi come se sua nonna volesse vendicarsi di una vicina di casa invidiosa.
Un potente realismo magico rende questo piccolo e importante lungometraggio di ancora più prezioso e fa sì che alcune perdonabili “ingenuità registiche” passino (quasi) inosservate. Storie di antiche tradizioni, di bizzarre credenze popolari, ma anche di tre generazioni femminili e del loro ruolo all’interno della società (“la donna indipendente, si sa, viene sempre tacciata come strega”) fanno da protagoniste assolute. Cristèle Alves Meira ha piacevolmente sorpreso il pubblico della Croisette. Chissà in futuro quali altre belle sorprese avrà in serbo per noi.
Marina Pavido